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Avatar: il vaso di Pandora del nuovo cinema

di Boris Sollazzo

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12 gennaio 2010

Avatar è una di quelle parole che ti entrano in testa- nel mondo moderno, soprattutto, essendo l'alter ego, virtuale e non, un desiderio e un timore portato dalle nuove tecnologie-, perchè hanno la musicalità di una formula di un incantesimo. Perchè va al di là del suo significato, coinvolge il senso del divino e la filosofia, il futuro e i confini dell'umano e, recentemente, della scienza. Avatar è il titolo che ha scelto James Cameron per il film con cui battere se stesso, quantitativamente e qualitativamente. L'uomo da tre miliardi di dollari (gli incassi di quest'ultimo film e del suo Titanic, divoratore di box-office e Oscar a suo tempo, supereranno, sommati, questa vetta) ha aspettato dodici anni per la storia, l'ambientazione, il popolo che aveva in mente ben prima del transatlantico naufragato. Forse da quel lontano 1977 in cui George Lucas e la visione di Guerre Stellari (e non è un caso) gli cambiarono la vita. Avatar è un capolavoro assoluto, lo dice Spielberg che magari a volte sbaglia un suo film, ma difficilmente sbaglia il giudizio su quelli altrui. "Avatar è magnifico- ha detto- e alza l'asticella del genere fantascienza a un livello con cui tutti dovranno fare i conti d'ora in poi". E lo dice uno che se ne intende.

Ma in Italia si è cianciato parecchio di un 3D temuto (forse, siamo maligni) prima di essere visto, il solo Gabriele Salvatores ha avuto il coraggio, proprio dalle pagine del quotidiano "Il Sole 24 Ore" di dire che "il 3D riscriverà il linguaggio cinematografico, ma non ucciderà il cinema che conosciamo, serviranno sempre riflessioni, sentimenti, pensieri ed emozioni". E il 3D di Cameron, il suo Imax, è proprio questo, non la tecnologia. E' la potenza immaginifica che ci scaraventa, Avatar noi stessi, su quel lussureggiante e commovente pianeta Pandora, una Terra ancestrale, che abbiamo perduto e distrutto. Per secoli, ripetutamente, in ogni angolo del globo.

Polpettone ecologico, l'ha chiamato qualcuno. Eppure tutta la politica e l'ambientalismo del regista è assolutamente coerente con una storia semplice e assoluta, epica ed etica, in cui i sottotesti sono istintivi e mai posticci. Valerio Massimo Manfredi l'ha definito "una favoletta". Evviva. Da Omero e la Bibbia in poi, pochi hanno saputo essere originali. Se andate a rivedere i film di Coppola, Scorsese, Truffaut (per chi scrive tra i migliori registi della storia del cinema) la loro forza non è tanto nella geniale trovata che è alla base delle loro pellicole, ma nel modo in cui hanno raccontato le loro storie.

Di polpettoni ecologici ne abbiamo avuti, ma se per essere pacifisti ci si offre un cattivo determinato e comico, se per raccontarci l'interconnessione con fauna e flora che noi abbiamo perso ci mostrano degli uccelli che sembrano draghi divenire mansueti dopo una lotta all'ultimo sangue con il loro futuro compagno umano, lì c'è la passione, la poesia, la potenza, l'ambizione narrativa di descrivere un universo. Certo, c'è fantascienza già vista in Avatar, c'è il western dei tempi d'oro (Piccolo grande uomo su tutti), c'è molto cinema con la c maiuscola.

Ma è un merito e soprattutto c'è Cameron e la sua meravigliosa e maestosa purezza di narratore, c'è la sua capacità di capovolgere la nostra percezione e così Sam Worthington, Zoe Saldana e Sigourney Weaver sembrano più umani, belli, "normali" nel corpo azzurro e altissimo dei Na'Vi, popolo che anche nel nome ricorda i nativi americani e che in generale è la metafora naturale di tutti i grandi popoli che hanno amato la Madre Terra più di se stessi e per questo sono stati vittime di tanti, troppi Olocausti, da parte dell'uomo (quasi sempre bianco) avido di denaro e arido dentro. Troppo semplice? Andate a vedere come ha speso il suo mezzo miliardo di budget Cameron, cos'è riuscito a creare, come una storia semplice (se un errore si può trovare in questo film da 10 è qualche sbavatura e semplificazione di sceneggiatura) possa regalare 160 minuti di magia. E pazienza se tutto verrà rovinato da uno o due sequel. Cosa improbabile, peraltro: a Il signore degli anelli, che in qualche modo gli somiglia (Peter Jackson rubò la saga a John Boorman perchè il secondo non aveva la tecnologia giusta per la trilogia, Cameron ha aspettato a lungo se stesso per il suo capolavoro) non è successo.

La semplicità non è mai stata nemica del cinema, nè lo sarà mai. Lo è la banalità, la piattezza (che in 3D rimane tale, state tranquilli), la furba ricerca di stilemi altrui per una poetica raffazzonata, vizio dei kolossal, anche quelli meglio riusciti.

Cameron non ha paura di farci ridere, piangere, volare, lottare, innamorare di creature strane (anche se ha dovuto tagliare, causa censura, una scena di sesso tra alieni, non per fortuna l'esilarante sigaretta della Weaver). Sa farci impazzire per uno sguardo corvino di un occhio giallo, lasciarci a bocca aperta con montagne volanti, sottoporci a una sequenza di scene madri insopportabile per molti suoi colleghi, e che con lui sono un crescendo esaltante come quelle sue musiche, che invadono lo schermo senza essere invadenti. Con Avatar faremo i conti per decenni, ma ora, neoluddisti, molti cercano di affossarlo. Il nuovo fa paura, soprattutto in Italia. E nessuno capisce un'altra verità che Salvatores, con ironia e acume, ha affermato. "Mi piacerebbe il 3D, ma vista la situazione qui sarà difficile continuare a farlo il cinema, anche in 2D! Me ne basterebbe persino una". La nuova tecnologia in Cameron è strumento, nel nostro paese strumentalizzazione. Avatar è il vaso di Pandora del nuovo cinema.

12 gennaio 2010
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